Alla luce della parola di Dio e del Vangelo che meditiamo in questa domenica, riascoltando come lo stesso Gesù ci parla del suo “essere innalzato da terra”, come non entrare in crisi, crisi davvero benefica e rigenerante, nel prendere atto che del nostro credo cristiano, sia come credenti che come Chiesa, abbiamo dato l’impressione che fosse più una religione della croce e meno dell’amore che salva, risana, rende liberi e infonde forza e gioia di vivere? Com’è potuto accadere che nelle nostre comunità cristiane si sia sbiadito il volto paterno e misericordioso di Dio e che all’amore fraterno, tante volte sia subentrato il sentirci estranei gli uni agli altri? (Omelia nella IV di Quaresima B, dg)
La nonna a casa ripeteva spesso una frase che le recitava suo padre come monito. Il versetto de “Salve Regina”: “In questa valle di lacrime, ricordati che questa è una valle di lacrime!”.
Dentro la preghiera, il pianto dei fedeli “esuli” davanti a Maria assume la richiesta pietosa, umile, contrita di essere ascoltati ed esauditi.
Estrapolata dal suo contesto, invece, questa espressione pare in effetti racchiudere tutti i dolori, le sofferenze, le domande georeferenziandoli, localizzandoli, radicandoli in un luogo qual è la nostra vita, la nostra quotidianità, la nostra – le nostre – realtà. La religione, quindi, in questo quadro che posto occupa?
l tentativo di rispondere alla domanda proposta dal nostro parroco don Giovanni, durante l’omelia di domenica 14 marzo, non è semplice, perché non propone un lavoro intellettuale, né un approfondimento di teologia, ma uno sguardo vero a ciò che ognuno vive.
E ognuno di noi vive anche dolori forti, dovuti al contraccolpo, all’impatto violento che la realtà pone davanti agli occhi, dappertutto – dallo studio, al lavoro, alla vita in famiglia, persino la propria domanda vocazionale.
Perciò sorge la domanda: cosa salva? Cosa permette che io sia salvato? Cosa mi libera da questo dolore? Una risposta è certa: la sola religione, così come essa è, non basta; non è sufficiente. La professione di fede, la celebrazione liturgica, la bimillenaria tradizione che la Chiesa conduce non sono nulla, se ciò che le alimenta è un profondo e puro devozionismo.
Questi strumenti, necessari e legittimi, non hanno alcuna portata se dietro di essi non vive una storia. Una storia, come quella che è accaduta a quei dodici cittadini di Giudea e Galilea, che lungo il cammino della loro vita hanno fatto l’incontro con un uomo – un uomo eccezionale.
Quell’Uomo ha detto loro: “venite a vedere!” quando gli hanno chiesto dove abitava. In quel preciso istante Egli poteva rispondere: “Sono il Figlio di Dio” o “sono il Messia”. Invece li ha invitati a vedere dove abitava. “E stettero con Lui” quella giornata. Dai primi due, Giovanni e Andrea, la conoscenza di quell’Uomo si è allargata ad altri dieci. E sia chiaro: Gesù non aveva scritto in fronte “Dio”. Era un Uomo, che non imponeva loro alcun rigore, nessuna legge, né alcuna regola religiosa. Anzi: quell’Uomo ad un certo punto avrebbe creato scandalo a chi conduceva il culto del Tempio.
Qual è dunque il cuore della compagnia con quell’Uomo? Perché quei dodici stavano con Lui? Perché Lui li guardava con una tenerezza tale, che loro non avevano mai vissuto prima. Una tenerezza, che senza sentimentalismo, non riduceva loro alcuna fatica – come, per esempio, quella di non capire cosa Lui stesse dicendo, o il significato dei gesti che Egli compiva.
Una tenerezza, che non eliminava i problemi, né riduceva le loro tensioni – di carattere, di pensiero, di idee – perché dovevano essere come Lui li voleva. Quello che quei dodici uomini vivevano nella compagnia con Lui era un amore talmente corrispondente alla domanda più profonda del loro cuore, che non potevano non tornare il giorno dopo stesso da quell’Uomo.
Sono tornati da Lui, perché lo stupore che avevano vissuto quel pomeriggio volevano riviverlo ancora. Perché è accaduto questo? Per un’unica dinamica umana – un incontro in cui era nata una probabile simpatia – attraverso cui era passata una profondissima eccezionalità.
La compagnia che era sorta con quell’Uomo non risparmiava loro nulla, nemmeno la domanda se anche loro avevano desiderio di andarsene via, quando tutti intorno, sentendo lo scandalo delle Sue parole, si erano già allontanati. La realtà che circondava quei dodici uomini – come la realtà intorno a noi – non era migliorata, né erano state risparmiate le fatiche o i dolori. I problemi non erano spariti.
Cosa era cambiato allora? Era cambiato il modo di guardarli. In forza di cosa? In forza di quell’incontro fatto con quell’Uomo, che li ha guardati con quella tenerezza. Qual è la conferma di questa tenerezza, se non la domanda che Egli rivolge a Pietro, dopo il rinnegamento: “Pietro mi ami tu?”. Davanti all’apostolo, la Salvezza era veramente divenuta carne con questo interrogativo.
La redenzione per quei dodici uomini era divenuta una carne, una persona, un volto preciso per ciò che era accaduto loro; per ciò che essi avevano vissuto con Lui. “Signore, anche noi non capiamo ma se andiamo via da te dove andiamo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Sia ben chiaro: nessuno obbligava loro a rimanere. Potevano andarsene. Perché non l’hanno fatto? La salvezza, dunque, non era giunta come una filosofia, né aveva i caratteri di una scuola di pensiero; non era contenuta in un libro, né era materia di insegnamento; non aveva la forma di una tradizione religiosa, né essa era giunta come un manuale di istruzione, per la soluzione dei problemi. La salvezza era giunta come una corrispondenza così profonda con quell’Uomo eccezionale, che non potevano non chiedersi: “Ma chi è Costui?”.
Stando con quell’Uomo, frequentandoLo, vivendoci assieme quei dodici giudei hanno confermato che Egli era il Figlio di Dio, senza che questi si presentasse così, proprio per la portata di quell’incontro.
Ma dal canto suo? Guardando la storia dalla sua prospettiva, Egli era venuto per compiere un gesto – la crocifissione – che quando accadde, nessuno di quei dodici ne aveva compreso il significato. Quando essi si resero conto di ciò che era accaduto? Quando la mattina del terzo giorno il più anziano e il più giovane di loro, recandosi al sepolcro, scoprirono che non era più lì. “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?”.
La Sua vita, il fatto che era morto, ed era tornato, ha ridestato in loro una speranza talmente forte che è giunta sino a noi. Come? Attraverso la vita stessa della Chiesa, che non coltiva altro che questa proposta: “Che cosa cercate? Venite a vedere”.
Come per quei dodici cittadini di Giudea, così duemila anni dopo, la Chiesa vive dentro la libertà degli uomini di accogliere o meno questa domanda, che non risolve alcun problema, non toglie alcuna sofferenza: come è accaduto a quegli uomini di Giudea, chi vive – chi vive, no chi studia, chi teorizza, chi vive! – questa tenerezza, questa eccezionale corrispondenza, chi vive questa speranza senza illusioni, guarda anche alla Croce con uno sguardo diverso, più lieto perché consapevole di ciò che gli è accaduto.
Da quel Fatto è nata la Chiesa. Da quell’incontro è scaturito un popolo nuovo. Quando quel popolo cade nella dimenticanza di ciò che ha vissuto, quando si scorda di quell’incontro che lo ha ridestato, lo ha sorpreso, lo ha colmato di speranza senza fine, allora anche il messaggio salvifico si perde, lasciando come unica testimonianza del Cristianesimo un inutile, vuoto, moralistico devozionismo, un distruttivo, futile, schiacciante doverismo e un patetico senso di tradizionalismo.
Fabrizio, 24 anni